domenica 28 luglio 2013

my own kind of house that looks like it might become home



Mrs. Carmichael versava il caffè in cucina. André, Jack e Bolivar erano seduti in fila sul divano. 

"Mettiti dritto" aveva detto lei a Vandoosler. A Bolivar invece: "allacciati l'ultimo bottone della camicia". Era una camicia nuova e stirata, e tutto ripulito e sbarbato il 'rocker era proprio bello. Lo era anche André, ma non ci aveva fatto troppo caso.

Avevano entrambi la faccia pesta. Jack si era affrettata a spiegare il perché: avevano combattuto contro feroci criminali uscendone vincitori (i lividi erano segno della loro profonda abnegazione e senso del dovere). 

"E come pensate di ristrutturare il ranch?" chiese la signora, tornando nel soggiorno con un ampio vassoio (accanto alle tazze c'era la torta di more portata dall'ammiraglio Rooster). André aprì la bocca, ma Jack si sbrigò a rispondere per prima: "pensiamo di iniziare con qualche capo di bestiame e cavalli, perlopiù. Abbiamo visto che in quella zona c'è una mandria di buckskin allo stato brado, e conosciamo altri ranch che possono farci buoni prezzi su un paio di stalloni".

Mrs. Carmichael annuì pensosa: se aveva abbandonato il ranch a se stesso un motivo c'era. Porse una tazza al bel ragazzo biondo, che sorrise e disse "mercì", e un'altra tazza al bel ragazzo con gli occhi blu, che sorrise e ringraziò come se dovesse inciampare sulle proprie parole. "Scusami, Jacklyn - disse passando la terza tazza a Jack - pensavo dovessi venire con tuo marito".

Jacklyn sgranò gli occhi. Fulminò André con lo sguardo prima ancora che potesse ridere, rivolgendo poi alla vedova uno sguardo mortificato: "io non sono... cioè, non sono mio marito, nessuno di loro è mio marito: non ho un marito - boccheggiò - ma ho lavorato nei ranch per metà della mia vita, e sono perfettamente in grado di..."

"E i giovanotti hanno lavorato nei ranch?"

Le spalle di Jack si arresero. Ritirò il busto indietro sprofondando un po' nel divano, e iniziò a mormorare rimproveri inudibili con le labbra nel caffè, visibilmente imbronciata. 

Renee evitò di rispondere tuffandosi direttamente nel caffè. Dondolò gli occhi blu sul compagno di cabina, che confessò con nonchalance: "io rubavo cavalli". 

Mrs. Carmichael rise, profondamente divertita dallo scherzo. Jack colse la palla al balzo e si sforzò di ridere anche lei, dando una pacca sulla spalla del 'tracker alla che spiritoso, ma facendola uscire decisamente più vigorosa di quanto i denti esposti lasciassero immaginare. "E Bolivar è bravissimo a riparare cose" si affrettò a dire. "Bravissimo..." ripeté lui poco convinto, dondolando il capo a suggerire tutt'altro. La Carmichael rise di nuovo. Risero tutti insieme a lei, perché sarebbe stato poco educato fare altrimenti.

Parlarono ancora un po', perlopiù di ciò di cui voleva parlare la vedova: del suo defunto marito, del suo defunto figlio morto in guerra col grado di ufficiale, di come fosse noto a tutti che il pastore della chiesa principale di Timisoara avesse il vizio dell'alcol. Parlò anche di Black, di come non vedesse un'impiccagione dal lontano duemila cinquecento e dieci e dell'alta forca permanente che c'era sulla piazza principale della città. 

"Bene, ragazzi miei - disse infine, dopo numerosi caffè e biscotti - siete dei bei giovani, rispettabili: avrete in gestione il ranch, lo sistemerete e potrete usarlo. Mi basterà una piccola parte del ricavato, una percentuale: un dieci percento, d'accordo? Un dieci percento al mese un po' di chiacchiere la domenica dopo la messa - sorrise ampiamente ad André - tornerete a messa, no?"

Lui non parve d'accordo, ma ricevette la decima gomitata nel giro di poche ore. "Certo che verremo, miss's Carmichael. - intervenne Jack con slancio - ogni volta che saremo a Timisoara, di certo".  

"Molto bene - disse soddisfatta la vedova, strofinandosi le sottili mani ossute sul tessuto della gonna, all'altezza delle ginocchia - e ditemi, adesso: un altro po' di caffè?"

sabato 27 luglio 2013

my own kind of pounding chest



Polaris è libero.

Lo sa da un po', ma in quel momento il pensiero le riempie la testa in maniera quasi ossessiva, e non sa spiegare il perché. Paga la donna dietro il banco della locanda. E' una signora abbronzata, con folti capelli castani troppo sottili e guance arrossate. Le spiega che la stanza è la seconda a destra dopo le scale.

"Dà sul sentiero?"
"Sul sentiero?"
"Nel senso, ha la finestra sul sentiero?"
"La finestra?"
"Aye, mi... se non sento i grilli non mi addormento"
"Ah, oye: c'è la finestra, cantano tutta la notte"
"Bene, grazie"
"E lunga vita alla Confederazione!"

La Confederazione: Jack si riscuote come se l'avessero colpita molto forte sulla nuca. E infatti è proprio la nuca che va a strofinare con le nocche e le unghie, rivolgendo un sorriso molto breve alla locandiera. Prende la chiave e sale i gradini come se all'improvviso avesse palle di ferro ai piedi. Lunga vita alla Confederazione, si ripete, e mentre infila la chiave nella toppa - una volta le cade anche per terra -, e il volto ispido di John Cassidy le occupa il velo dietro lo sguardo insistentemente. Si riprenderanno tutto, pensa, e si riprenderanno ogni cosa. E allora sarà davvero la fine.

La stanza è insospettabilmente fresca. Si morde le labbra troppo forte, sprigionando sul palato il sapore ferroso dei capillari subito sotto la pelle (o forse è solo un gusto di cui sta recuperano i frammenti). Ha cavalcato fino a lì e non c'è parte dei suoi vestiti che non sia impregnata di pioggia. Si cava dalla tasca gli antidolorifici e se ne rovescia un paio un bocca, mandandoli giù con una fretta un po' nervosa. Inspira, espira. Guarda la finestra chiusa mentre si toglie il cappello e lo poggia sull'unica, traballante sedia di legno e paglia. Tira fuori i fiammiferi, accende le tre candele che riesce a trovare. Poggia anche una mano sul letto per controllare il materasso. Si rende conto che la ferita le fa male, o forse sono solo le ginocchia che le tremano. I ain't no kid, si dice sorprendendosi di se stessa.

E' terrorizzata. Si tocca la fronte con entrambe le mani, rimanendo in piedi davanti alla finestra chiusa. La pioggia è così forte che sembra grandine sui vetri. Ormai starà aspettando sotto la pioggia da minuti, riflette, ormai se ne sarà andato via. Polaris è libero, ma lei non ha ancora neanche brindato alla lunga vita di Polaris. Black è agli arresti, ma i nemici si moltiplicano. Eivor ha testimoniato, ma le ha chiesto se preferiva la legge del rim o la sicurezza dei suoi, e lei ha scelto la legge del rim. Non c'era scelta, si ripete quando ci pensa, ma la verità è che se un giorno Polaris cadrà - presto, ha detto John Cassidy, presto si riprenderanno tutto - lei avrà messo in pericolo tutti.

Anche Bolivar. Si strofina forte il volto, pensando al suo sorriso aperto e al modo in cui ha stretto le dita attorno al collo di Black. Poche ore prima, ma sembra già qualcosa da ricordare. E' in pericolo anche lui. E più in pericolo di tutti, perché è buono e onesto, e lo sanno tutti che le persone buone e oneste sono sempre quelle che pagano per tutte le cattive e le disoneste. Cosa accadrà se farà la scelta sbagliata? Il buco di Redhawk che Snow le scavò in petto, Blackbourne e il suo coat sporco di sangue per colpa una giacca blu che almeno due volte nella vita lei aveva avuto a portata di revolver, la sospensione del giudizio su Black solo per essere pugnalata nella schiena quando ormai si era dimenticata che potesse essere un problema. Tutte sue scelte, e tutte sbagliate. 

Ormai se ne sarà andato. Spalanca la finestra e si toglie le pistole dalle costole, il coltello da dietro la schiena. Mentre il cielo viene squarciato da un fulmine bianco, dietro le montagne, lei si siede al bordo del letto e considera che ormai le conviene dormire lì, recuperare le forze. Si sta sfilando gli stivali quando il crepitio di un ramo in tensione la fa saltare in piedi. All'improvviso il petto batte come un tamburo di attesa e indecisione.

Il salto di Renee è agile, ma la botta in testa ne compromette un'ultima volta l'equilibrio oltre il davanzale. Lei gli scivola incontro, lo regge, lui si affretta a ritrovare la propria stabilità - è una questione di onore -. Sembra che qualcuno lo abbia spinto nel Potomac con tutti i vestiti. E' bastato poco tempo a fargli gonfiare lo zigomo, ma la faccia pesta gli conferisce un'irresistibile familiarità per Jack Rooster, che è cresciuta tra uomini che risolvevano ogni dissidio rilevante a pugni. 

Lei ride. Il respiro torna a riempire i polmoni fino in fondo. 

"You better get out of these clothes, or you'll get sick" argomenta, passandogli le mani sul collo.
"Yeah-- yeah. - concorda lui, gli occhi blu accesi e l'accento di Blackrock mille volte più aperto di quello stretto di Sweet Waters - I betta' ". 




who's that clatter in the hall
who's that rattling my door
who's that numbing up my name
who's that creeping towards my frame

who's that pounding on my chest
who's that salting up my neck
who's that shattering my breath
with a scream under their dress

who's that dark with iris wide
who's that climbing to my side
who's that reaching in the dark
who's that warm with words so sparse

martedì 23 luglio 2013

my own kind of minor bird


I have wished a bird would fly away,
And not sing by my house all day;

Have clapped my hands at him from the door
When it seemed as if I could bear no more.

The fault must partly have been in me.
The bird was not to blame for his key.

And of course there must be something wrong
In wanting to silence any song. 

R. Frost


- Ti trovo  bene.
- Ti trovo bene anche io.

Piove, piove a dirotto da settimane e uno dei due mente. Il tavolo a cui sono seduti è schiacciato tra altri quattro tavoli simili, e ogni tanto una gomitata di quello che le sta dietro fa vibrare la sedia di Jack Rooster. E' caldo, ma la notte del sabato è caldo anche d'inverno, a Timisoara. Trovarsi lì con lui ha uno strano effetto surreale che la fa stringere nelle spalle così tanto da volerci scomparire. Tra chiacchiere e pianoforte, parlare è difficile. Ogni cosa la ripetono due volte, la seconda scandendola bene in modo da farla intuire tramite il labiale.

- E così Polaris è libero.
- Cosa?
- Dico: Polaris-è-libero.
- Ah, aye, è libero. 

John Cassidy beve whisky. Da quanto ricorda Jack, non ha mai bevuto in vita sua altro che whisky, anche la mattina. Non l'ha mai visto con un bicchiere d'acqua, o una birra in mano. Quando faceva parte del suo equipaggio, usava dire che era una questione di coerenza: una volta che scegli una scimmia da buttarti sulla schiena, fai meglio ad attenerti per il resto della tua vita. 

- Allora, l'equipaggio?
- Cosa?
- L'equipaggio.
- Ah. Bene, bene. Ti devo chiedere delle cose. 
- Cose?
- Cose, sì, cose... sui controlli, sui blocchi navali.
- Sui blocchi.
- Sì.
- Ay, d'accordo.

Il whisky l'ha preso anche lei. Preferisce guardare il fondo appannato del bicchiere piuttosto che fissare Cassidy e dargli il tempo di indovinare i suoi pensieri. Per esempio, appena sorpassata la porta del saloon ha pensato che fosse invecchiato. Ora fa i conti, arriva fino a quarantatré e si ferma; poi ricomincia, ma questa volta si ferma a trentadue. Trentatré. Dieci anni, e l'ultima volta che si sono visti era il lontano duemila cinquecentotredici. 

- Se usciamo?
- Eh?
- Dico: se usciamo?

Jack guarda fuori dalla finestra, illuminata da un lampo di luce abbagliante quanto breve. Annuisce e, alzandosi, si ricorda di prendere il bicchiere e la bottiglia. John fa lo stesso. Per sgusciare fuori dalla porta, sulla veranda umida, devono scavalcare cinque metri di sedie e tavoli serrati.

- Neanche quando avevamo messo le barricate era più difficile passare.
- Le barricate.
- M-mh. Tutta Timisoara, pensavamo a un attacco. Non è mai arrivato.
- Sai che non durerà per sempre, no?
- Che vuoi dire?
- Che verranno a riprendersi il sistema, e voi non potrete farci niente.

John sorride a metà, sconfortato, e la pelle rovinata degli zigomi si tende dietro uno spesso strato di barba brizzolata. Jack si siede su una panca e manda giù le sue due dita di whisky, rilassando le gambe in avanti, con le caviglie incrociate. Guarda oltre il buio del vicolo su cui dà l'entrata del saloon, cercando di indovinare il colore dei mattoni dell'edificio di fronte.

- Non sarà così - dice con convinzione, ma la verità è che un nodo le stringe già la gola.
- Vorrei anche io che non lo fosse.
- Mi sono sempre chiesta com'è stare nei tuoi panni, John.
- Have you?
- M-mh. Arrendersi ogni volta che c'è una battaglia che valga la pena combattere...

Gli occhi di lui sono verde chiaro, e il whisky ne annacqua i contorni. Si versa un altro bicchiere prendendo la bottiglia dalle mani di Jack, e nel farlo le sfiora le dita senza far finta che sia casuale. E' generoso con se stesso, Cassidy, quando beve. Sorride piano con le labbra sul vetro del bicchiere, e manda giù con disinvoltura. E' la stessa disinvoltura che usa per distruggere sistematicamente qualsiasi cosa che rischi di tirarlo fuori dalla sua responsabile e assolutamente consapevole miseria. Ha tutti gli strumenti per farlo: è istruito e spietato e, sebbene avesse finito per sposarsi sotto il suo rango, su Shijie tutti conoscevano i Cassidy di Cape Field e i loro ventimila ettari di terreno. La guerra l'ha trascinato in basso, la morte di sua moglie e suo figlio ce l'hanno tenuto. 

- Pensi che sia una battaglia che vale la pena di combattere?
- Tu no?
- Nay. Non lo penso. Non dovresti pensarlo neanche tu.
- Perché non dovrei.
- Perché non è casa tua, innanzi tutto. Perché gli alleati riconquisteranno tutto. Perché la Confederazione di Polaris non porterà certo indipendenza negli altri sistemi.
- La porterà. Sarà d'esempio.
- Pensi che Columba si ribellerà?
- Perché no. 
- E se anche Columba si dichiarasse indipendente?

Jack rimane in silenzio, il volto le si scurisce. Preferirebbe rotolarsi nel terreno fangoso del vicolo piuttosto che continuare quella conversazione. Le si dipana davanti ancora prima che John, preciso e inclemente, vada a cercarle dentro tutti i dubbi e glieli metta in fila davanti, solo perché lei possa arretrare e disperarsi, e aprire la porta quando l'inferno va a bussarle di notte.

- Se anche esistesse una Confederazione di Columba, pensi che rimetterebbe l'erba sulle wastelands di Shadetrack. E se un miracolo rendesse Shadetrack di nuovo verde, sarebbe abbastanza grande da scuotere la terra e farle risputare i morti?
- Smettila.
- Rispondimi.
- No.

Lascia il bicchiere sulla panca e si passa le mani sul volto con vigore esausto. All'improvviso ogni cosa perde di senso e motivo. Si sforza di attribuire la colpa alla presenza dell'uomo che ha accanto, e che con le spalle arrese reclina il busto contro il muro; e vi si poggia in attesa dell'impietoso destino che prima o poi arriverà, ne è sicuro. Mentre Jack vorrebbe ricucire mille e una contraddizioni in un unico abito che le stia bene addosso, John Cassidy spera ogni giorno che un soffio di vento più forte degli altri lo riduca in polvere e lo dissipi nell'aria fresca del mattino.

Lui aspetta di morire: di questo è sicuro. La sua convinzione non traballa un attimo e lo tiene solidamente insieme, oltre e nonostante il desiderio di dissoluzione. Lei spinge con entrambe le braccia gli scheletri sotto il letto e passa la notte ad ascoltarli battere i denti. 

- Perché non ti sei fatto sentire?
- Mh?
- Nadia mi scrive spesso, e l'hanno fatto anche tutti gli altri, almeno una volta.
- Pensavo non volessi saperne più niente, di me.
- Sei stato tu a cacciarmi.
- Mi biasimi per averlo fatto?
- Certo.

John pare sorpreso. Solleva le sopracciglia e prova a ricordare se abbia mai sentito Jack Rooster spartire colpe con tanta sicurezza. Un movimento rapido delle mani fa materializzare sul suo palmo una sigaretta dritta e precisa. L'accende con qualcosa, odora di sintetico e confonde Jack fino a farla ripiombare nella Lucky Bastard. La sickbay sterilizzata, la cabina di sei metri quadrati e l'ostinata solitudine nel letto e nelle braccia di John Cassidy: ogni cosa la colpisce tra la nuca e le spalle e le riempie gli occhi di un'impietosa e asciutta malinconia. Tutto ciò che è venuto dopo scompare. Tutte le persone perse e tutte le posizioni conquistate. Non è più l'ultimo miglio e poi la meta, ma mille miglia e poi un salto nel vuoto, senza rete. L'ammiraglio del Terzo Aviotrasportato Polaris torna ad essere il tenente che ha perso la guerra e tutte le cose importanti. E' su Polaris e piove. E' in una delle cabine del deck superiore, lei e John si contano le sconfitte sulla pelle e si snocciolano la spina dorsale con le mani. 

- Sei incredibile - ride lei.
- Lo dubito.
- Non sei atterrato da neanche ventiquattro ore e già sei riuscito a farmi sentire così.
- Come?
- Perdente. Lo sai... battuta.
- Mi dispiace. 
- Non credo.

Lui scuote il capo con convinzione, ma la verità è che deve pensarci un attimo. Si chiede se ha perso la guerra molto prima di tutti gli altri, e quale insondabile principio lo costringa a demolire ogni speranza di rivalsa. Perché, se i suoi vecchi commilitoni conquistano vittorie vere o presunte, lui abbia ghettizzato il cuore che gli batte nel petto a brutali rastrellamenti e rappresaglie di buoni sentimenti. Di chi sta facendo il bene. Sta ancora pensando mentre la coda dello sguardo coglie l'inatteso movimento di Jack, che si solleva dalla panca e si spinge in avanti, già proiettata verso l'esterno della veranda. Fa in tempo ad afferrarla confusamente, e stringendole le dita attorno al braccio quasi si brucia. Così tutto gli torna: il calore ostile della pelle di Jack Rooster, ogni furiosa lotta che li ha visti sconfitti entrambi, i limoni aspri che trasportarono di contrabbando da Tauron a Sunset Tower, i fili attorno ai polsi e alle caviglie che li tiravano in direzioni opposte ogni volta che riuscivano fugacemente a trovarsi. Serra la presa così forte da farle male, perché sente ancora quei fili tirare. 

- Resta, per favore.
- No.
- Perché no?
- Perché dovrebbe essere facile, e non lo è.
- Perché no?
- Non lo è mai, con te.

Ha ragione lei: non lo è mai stato. Ma nel momento esatto in cui lo dice la notte si allunga, e i fili si ammorbidiscono promettendole qualche ora di tregua.



sabato 6 luglio 2013

my own kind of things falling back into place




Luglio 2515, Capital City


Maryanne leggeva un libro di carta mentre suo figlio, seduto sull'ampio davanzale di una finestra bassa e ampia, evitava accuratamente di fare i compiti. Ogni tanto si sfiorava l'occhio destro, gonfio e violaceo, per sperimentare quanto gli facesse ancora male. Erano mesi che attaccava briga a scuola senza che i genitori riuscissero a spiegarsi il motivo. Lo avevano mandato per cinque settimane da una psicologa infantile assai raccomandata da alcuni colleghi di Kal, ma fino ad ora non vi erano stati progressi significativi. 

- Sean - lo richiamò all'ordine, piano. Sean continuò a guardare le gocce di pioggia che scivolavano lungo il vetro. Era un bambino di dieci anni, con dei lineamenti delicati e i capelli tenuti lunghi sulla fronte. Maryanne aveva provato mille volte a farglieli tagliare, ma aveva ricevuto sempre scrollate di spalle eloquenti. 

- Kal torna stasera?
- Non credo
- Lavora?
- Sì, certo...
- Quando torna?

Anche Maryanne sapeva essere sfuggente, talvolta. Voltò pagina e si schiarì la voce.

- Domani ti porto alle Terrazze Verdi, ti va?

Sean divenne più accigliato. Dopo un po' poggiò l'holodeck che aveva in grembo e si voltò verso sua madre.

- Mi parli di Shadetrack?

Maryanne alzò gli occhi bruni su suo figlio con estrema cautela. Schiuse le labbra morbide, boccheggiò qualche istante. Chinò il capo e chiuse lentamente il libro. Non era la prima volta che si lasciava sorprendere da quella domanda. Si biasimò per non aver pensato ancora a una risposta soddisfacente, neutra a sufficienza. Esauriente abbastanza da non portare ad altre domande. Erano le altre domande, che temeva.

- Che cosa ricordi di Shadetrack?
- Poco. Che non c'erano i cortex pad. E un signore alto... grosso. Che passava molto tempo con me. 
- Ti ricordi tuo nonno. Mio padre. Ma non passavate così tanto tempo insieme, lui... ti teneva ogni tanto.
- Me lo ricordo bene.
- E' strano.
- Tu sei nata a Shadetrack?

Maryanne poggiò entrambe le mani sul vetro brillante e trasparente del tavolo. Si guardò le dita affusolate, alla ricerca di un'elaborata via di fuga. Si rassegnò alla verità abbastanza presto.

- Sì. 
- Vuol dire che se tu e Kal vi lasciate noi torniamo su Shadetrack?
- No, non... - Maryanne si passò una mano tra i capelli corti e biondi - no Sean, non devi preoccuparti... io e Kal non ci... perché pensi questo?
- A me va bene, se tu vuoi. Tornare su Shadetrack.
- Sweetie... Shadetrack non è un posto dove tornare.
- Perché? Non ti piaceva?
- Non è questo, è che... è diventato un brutto posto dove vivere, dopo la guerra.
- La Grande Guerra?
- Sì, la Grande Guerra.
- Quella in cui è morto mio padre?

Ce l'aveva fatta, l'aveva agganciata. Teneva gli occhi su di lei con una severità particolare, attento a non farsela sfuggire neanche per un istante (o l'avrebbe persa, ne era sicuro). 

- Sì, Sean. Quella guerra.
- Anche lui era di Shadetrack?
- Sì, lo sai...
- Quindi non ho capito... se era di Shadetrack, perché era nell'Esercito?

Sean aveva vissuto per la metà esatta della sua vita (quella più recente e più rilevante) nel cuore pulsante dell'Alleanza: quando parlava dell' "Esercito", c'era un solo "Esercito" a cui poteva riferirsi. Maryanne lo sapeva. Si alzò dalla sedia lisciandosi la gonna, aggirò il tavolo e andò a sedersi accanto a lui, senza invaderne lo spazio.

- Perché? - incalzò lui, per nulla intenzionato a farsi stringere all'angolo.
- Lui era nell'altro esercito, Sean.
- Nei Browncoats?
- Sì.
- Anche Jack Rooster lo era?

Seppe di essere esattamente dove voleva quando vide sua madre irrigidirsi. Nonostante non fosse certo il migliore tra gli studenti, Sean possedeva l'istintualità indomita di un lupo e come un lupo aveva studiato le tattiche migliori per ottenere ciò che voleva. Sorprendere e insistere non funziona sempre, con sua madre. Ma la maggior parte delle volte sì.

- Jack Rooster era la sorella di mio padre. Vuol dire che mio padre si chiamava Cain Rooster, e che io mi chiamavo Sean Rooster. - catalogò con precisione.
- Come sai di Jack?
- Vuol dire che Jack Rooster è mia zia?
- Sean, chi ti ha detto di... ti ha cercato, ti ha avvicinato? 
- Mi avevi detto che tutta la famiglia di mio padre era morta.
- Sean, è grave: rispondimi.

Lui strinse i pugni e i denti, e sul viso scuro si affacciò tutta l'ostinazione dell'infanzia.

- Rispondimi tu. Perché mi avevi detto che la famiglia di mio padre--
- Kal è tuo padre!
- No. Kal è tuo marito, ma non è mio padre. 
- Non sto scherzando, Sean. 
- Kal è tuo marito, e questa è la sua casa, e io non c'entro niente!
- Sean.

Lei provò a prendergli un braccio, lui lo strattonò via nella furia di alzarsi in piedi e correre al piano di sopra.

- Sean!

Non si voltò. Maryanne rimase lì da sola, con gli occhi spalancati e pienamente storditi. Si alzò in piedi e andò al telefono, digitando il contatto di suo marito con i polsi che le tremavano. Squillò a vuoto.