domenica 30 ottobre 2011

my own kind of broken promises


"Tu sei proprio un tipo, mh?"
"Dici?"
"Biondina, faccia pulita, modi gentili, un angelo caduto dal cielo. Ma te lo devo dire, miss Longbaugh, noi Rooster non ci facciamo mettere le briglie dai primi occhioni castani che incontriamo"
"Non mi aspettavo che uscire con tuo fratello significasse uscire con tutta la famiglia"
"Cain si lascia trascinare, ma io ti osservo, Maryanne. Sai come si dice: cosa non si fa, per la famiglia..."
"Di che ti preoccupi, allora? Con te nei paraggi tuo fratello è al sicuro. E io... sarò nata bionda, ma ho dei progetti, progetti per me stessa. E nessuno che mi ha sottovalutato ha mai avuto ragione"
"Lo vedremo, angioletto. Ma te l'ho detto: occhio. Cain sarà pure perso per te, ma io ho le orecchie dritte. E non mi lascio incantare. "

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"Jack! Gliel'ho chiesto!"
"Gliel'hai chiesto?"
"Gliel'ho chiesto!"
"Oh. Oh! E... che ha risposto?"
"Ha detto sì!"
"Ha detto sì?"
"Aye, te lo devo ripetere?"
"Tu ti... ah, ti sposi. Santo dio, Cain, sono... congratulazioni, per l'inferno, bravo, cioè, bravi. Non ci posso credere che... ah!"
"Non odiarmi, sorella: tu e mamma non potevate restare le uniche donne della mia vita, eh. Ma ti giuro, mi impegnerò a far nascere un maschio, a tempo debito"

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"Cain mi ha detto che vi sposate"
"Ti ha detto bene"
"Be'. Brava. Niente più università nel Core, quindi?"
"Immagino di no. Perché lo chiedi?"
"Non so, ne parlavi tanto. Parlavi sempre di andare a studiare lì, di fare ricerca medica. Ti lamenti sempre che qui la gente ti chiama solo per far partorire le vacche"
"Lasciami stare, Jack"
"Non volevo..."
"Cain è un bravo ragazzo, è buono e generoso e io lo amo. Sarà un padre splendido, quando decideremo di avere dei figli. E per quanto tu possa fare io non"
"Io non..."
"Lasciami stare, Jack."

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"Se mi succede qualcosa..."
"Non ti succederà niente, Cain"
"Se mi succede qualcosa, devi prenderti cura della mia famiglia. Promettimelo."
"Cain, tu..."
"Devi prenderti cura di Maryanne e di Sean, Jack. Promettimelo"
"Te lo prometto".

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"Devi riportarmelo a casa, Jack"
"Te lo prometto"
"Non prometterlo, fallo e basta"


domenica 23 ottobre 2011

my own kind of what-you-deserve

Più lo incontro, più ci penso.
Penso che potrei cercare chi ama e fargli del male, e costringerlo a guardare, e poi ucciderli, e poi farlo soffrire e poi uccidere anche lui, ma lentamente.

Mi addormento sul pensiero, e la mattina quando mi sveglio penso che non sono io, che ero ubriaca, che non lo farei.

Ma la sera arriva sempre, e non posso fare a meno di pensare che la legge più antica dell'universo è quella del taglione.

Conosco una ballata. Diceva: "you never get what you deserve".

You never get what you deserve, not you, no.

Ed è la storia degli ultimi dieci anni della mia vita: ho vissuto vent'anni facendo la cosa giusta. Quando è arrivata la guerra sono andata a combattere, per proteggere chi amavo.

Ho perso tutto. E, Dio...

non me lo merito.

sabato 22 ottobre 2011

my own kind of philosophy



" E' una ballata che parla di questo tizio che sta morendo, e chiede di non essere sepolto nelle praterie. Vuole finire sotto terra dietro una chiesa, in qualche posto dove poi possano andare a piangerlo, e portargli dei fiori. Finisce che quando muore lo seppelliscono in una prateria.

A volte la gente non capisce un cazzo. "



"O bury me not on the lone prairie."
These words came low and mournfully
From the pallid lips of the youth who lay
On his dying bed at the close of day.

He had wasted and pined 'til o'er his brow
Death's shades were slowly gathering now
He thought of home and loved ones nigh,
As the cowboys gathered to see him die.

"O bury me not on the lone prairie
Where coyotes howl and the wind blows free
In a narrow grave just six by three—
O bury me not on the lone prairie
"

"It matters not, I've been told,
Where the body lies when the heart grows cold
Yet grant, o grant, this wish to me
O bury me not on the lone prairie."

"I've always wished to be laid when I died
In a little churchyard on the green hillside
By my father's grave, there let me be,
O bury me not on the lone prairie."

"I wish to lie where a mother's prayer
And a sister's tear will mingle there.
Where friends can come and weep o'er me.
O bury me not on the lone prairie."

"For there's another whose tears will shed.
For the one who lies in a prairie bed.
It breaks me heart to think of her now,
She has curled these locks, she has kissed this brow."

"O bury me not..." And his voice failed there.
But they took no heed to his dying prayer.
In a narrow grave, just six by three
They buried him there on the lone prairie.


And the cowboys now as they roam the plain,
For they marked the spot where his bones were lain,
Fling a handful o' roses o'er his grave
With a prayer to God his soul to save

martedì 18 ottobre 2011

my own kind of blood bound




What's the difference between me and them, then?
You're blood bound, Jack. That's the difference.

domenica 16 ottobre 2011

my own kind of rage

Non tutti capiscono perché sono così arrabbiata.

Metà dell'universo ha perso qualcuno in guerra, del resto, e buona parte di quella gente ha cambiato vita, l'ha superato. Io che mi ostino a marciare nella stessa direzione di due anni fa e non mi sento ancora arresa alla sconfitta.

Quando misi piede per la prima volta a Serenity Valley non mi interessava più molto, della guerra. Tutto ciò che volevo era farla finita con le armi, gli spari, i morti. La notte andavo a dormire, ma come tutti non dormivo veramente: tenevo sempre i muscoli tesi, la mascella bloccata, come se mi aspettassi di morire da un momento all'altro. Non mi sono mai arresa, però. Sapevo che stavo facendo la cosa giusta, che avevamo qualche chance di vincere. Immaginavo come sarebbe stato tornare a casa da vittoriosa, e ingenuamente immaginavo casa esattamente come l'avevo lasciata.

Cain morì nell'ultima grande carica. Un'ora dopo, capii che avevamo perso quando vidi gli Shangdi dell'Alleanza bombardare la valle, interamente. Un unico momento di lucidità in cui mi apparve chiaro che la guerra sarebbe finita un'ora dopo la morte di mio fratello.

Non finì lì, però. Passarono tre giorni prima che la pace venisse firmata, e quindi prima che qualcuno venisse a raccoglierci. Ricordo quelle notti passate spalla a spalla con cadaveri in via di putrefazione. Quando finalmente arrivarono i soccorsi, e iniziarono a scavare le fosse, dovetti trafugare il corpo di mio fratello per riportarlo a casa, sulla nave di John Cassidy. Quella nave su cui passai i due anni successivi.

La rabbia iniziò lì, credo. Quando realizzai che non avevo più una casa né una famiglia, quando iniziai a rendermi conto che ogni luogo buio mi ricordava quei tre giorni passati tra morti e moribondi prima dell'arrivo dei soccorsi... quando capii di essere irrimediabilmente rotta, prosciugata di qualsiasi cosa che non fosse una rabbia cieca capace di mangiarmi il cervello.

Mi misi nei guai, più volte. A Reno, all'inizio, aggredii un uomo che disse di aver fatto una tacca sul suo fucile per ogni indipendentista ammazzato: un labbro spaccato lui, due costole incrinate io. Un occhio nero e il naso rotto, più tardi, quando vedendomi col marrone addosso un uomo si rivolse a me dicendomi che dovevo rassegnarmi alla sconfitta. E ancora così, per mesi, per due anni. Più mi cacciavo nelle risse, più altre risse venivano a cercarmi. Più mi facevo male più ne cercavo, perché la rabbia funziona così: esige più nutrimento ogni giorno, più energie, più attenzione.

Poi a Maoyi, da ubriaca, persi il controllo e mi feci quasi ammazzare. Uno tirò fuori una pistola per spararmi in testa quando ormai ero già mezza svenuta, ma invece di colpire me prese di striscio Nadia, ad un braccio.

Nadia, il medico di bordo della nostra Lucky Bastard: una ragazzina che aveva fatto l'infermiera nelle fasi finali della guerra. Avrà avuto ventitré, ventiquattro anni. Le volevo bene, a modo mio, ma quando iniziai la rissa non considerai neanche per un istante il modo in cui la stavo mettendo in pericolo. Non so neanche se ricordassi di averla portata con me.

La prima cosa che vidi quando riaprii gli occhi fu John. Lo vidi e basta, però: per il mese seguente si ostinò a non parlarmi, a non guardarmi neanche in faccia. Poi, un giorno, mentre stavo provando a spaccarmi il gesso del braccio sinistro, entrò nella mia cabina e mi disse qualcosa che non scorderò mai. Mi disse: "o fai pace con te stessa, o non puoi più stare sulla mia nave".

Una settimana dopo lasciai la Bastarda Fortunata: fare pace con me stessa, risposi a John, non era un'opzione.

Perché non mi serve.
Non mi serve far pace con me stessa, non sono in guerra con me stessa. Questa rabbia che ho dentro, con cui mi sveglio ogni mattina e con cui vado a dormire ogni notte... questa rabbia che mi mangia dall'interno non ha niente a che fare con me, con chi sono io, con come sto conducendo la mia vita. Ha a che fare con quello che mi è stato portato via e che non posso avere indietro.

E' questo il motivo per cui non faccio finta. Non faccio finta di non odiare chiunque scenda a patti con l'Alleanza o con i suoi marines, come quella ragazzina, quella Summer Cotton del ranch. Non faccio buon viso a cattivo gioco con quel Gibbs solo perché sarebbe più comodo. Non fingo di non volerlo uccidere, non fingo di non voler ammazzare ogni singola persona che ha preso parte allo sterminio della mia gente e della mia famiglia.

Non provo neanche a nasconderla, la mia rabbia, perché non me ne vergogno. Forse mi rende una persona peggiore, una persona più pericolosa, più inaffidabile di quella che ero prima di tutto questo.

Ma almeno... almeno la mia rabbia non mente mai.

mercoledì 12 ottobre 2011

my own kind of jail

Una coperta e degli antidolorifici.

Tutto quello che mi serve per passare le notti in questo buco di cella dell'ufficio dello sceriffo di Oak Town. Puzza, si gela e la gamba mi sta uccidendo, ma cristo, il motivo per cui ci sono finita valeva ogni singolo fottuto istante passato in questa topaia.

Ho anche pensato di prenderlo a pugni, Gibbs. Al primo richiamo: ho pensato di estrarre il mio numero identificativo, andare a porgerglielo, e poi dargli un pugno così forte da rendere addirittura meno sopportabile di quanto sia adesso quella sua fottuta faccia del cazzo che si ritrova.

Ho pensato all'equipaggio, però. Alla Almost Home.

E nonostante ciò, eccomi qui: l'unica compagnia è il tizio che suona l'armonica nella cella accanto. Chiacchieriamo ogni tanto, anche se non sono ancora riuscita a vedere la sua faccia. Quando suona sto zitta, e quando suona la sera me lo godo e basta. Un paio di volte mi sono anche addormentata. Per mezz'ora, o qualcosa così.

Non ci sono mai stata, in prigione. In guerra non mi hanno mai catturata e le corde che mi legavano alla mia famiglia, per quanto strette fossero, erano sempre lunghe centinaia di miglia.

Nessuno mi aveva messo delle manette, prima d'ora. Più ci penso, più mi sembra l'atto più vigliacco che un uomo possa fare: togliere al proprio avversario ogni modo di rispondere all'offesa, immobilizzandolo invece di affrontarlo come una persona con le palle farebbe. Non mi sorprende che quel fantoccio, quel quarto di uomo di Gibbs abbia bisogno di certi metodi, lui e i suoi compagni.

Non dureranno molto, però. E lui, lui durerà meno di chiunque altro.

Fumo, e con la mano sinistra tocco la catenina militare che ho al collo, la snocciolo anello per anello come se fosse un rosario e poi arrivo alla targhetta. Non ho bisogno di guardarla, sento sotto le dita ciò che ci è scritto: tempo e intemperie non l'hanno eroso.

Mi stendo sulla branda e chiudo gli occhi, ma non riesco ad addormentarmi: sul petto mi pesa la mia prima e la mia peggiore gabbia.

Quella dalla quale non mi tira fuori nessuno.

martedì 11 ottobre 2011

my own kind of home

Sono nata e cresciuta in una casa in cui non girava molto oro, ma giravano i soldi necessari per sopravvivere. Mia madre e mio zio si sono spaccati la schiena per crescere due figli e dar loro un'istruzione e un'educazione dignitosa. Shadetrack era un bel posto, per farlo: praterie immense, lunghi fiumi dal letto placido, un piccolo villaggio con tutto ciò che era necessario per rilassarsi dopo il lavoro, un villaggio più grande e più distante per andare ad esporre e a vendere i capi di bestiame dei rancheri della zona, per cui lavorava mio zio e per cui, più tardi, avremmo lavorato anche io e mio fratello.

Di quella prima casa ho ricordi ancora vividi, seppure i particolari si confondano ogni tanto nella mia memoria. Ricordo il rumore del pollaio di mia madre, le uova fresche a colazione, la mattina, lo scricchiolio del mio letto. Dormivo in stanza con mia madre, mentre mio fratello dormiva con mio zio. Ricordo l'incendio che ne distrusse una parte quando avevo quattordici anni, e poi l'ostinazione di tutta la mia famiglia nel ricostruirla, l'aiuto degli amici che io e Cain avevamo e, soprattutto, tutti gli uomini e le donne che amavano mia madre - la maestra del villaggio di Madrida - e mio zio, un lavoratore instancabile, un cowboy coraggioso come non ne fanno più.

Ricordo che rimasi stupita, ammirata nei confronti dei miei parenti. Ricordo che pensai che, a trenta o quarant'anni, avrei capito di essere una buona persona in base a quante persone mi avrebbero aiutato nel momento del vero bisogno.

Quando compii diciassette anni - lavoravo già da un anno o poco più - io e Cain decidemmo di affittarci una casa per conto nostro, un posto tranquillo tra Madrida e il centro cittadino più grande dei dintorni, Mexican. Ci permetteva di muoverci più agilmente con il lavoro e, allo stesso tempo, non ci allontanava troppo dalla nostra famiglia. Qualche tempo dopo nostro zio si ritirò, lasciandoci tutti i suoi clienti, e quattro anni dopo Cain si sposò e si trasferì di nuovo a Madrida, dove sua moglie esercitava la professione di medico.

Maryanne, lei era... sveglia, intelligente, anche molto bella. La conoscevo bene già da un po', e sapevo che presto o tardi sarebbe stata lei a mettere le briglie al ragazzo - perché per molti versi era ancora un ragazzo - scalmanato e arrogante che era Cain.

Restai quindi sola in una casa ormai soltanto mia, ma mai per troppo tempo: il lavoro mi portava lontana per mesi, e le praterie le conoscevo ormai così bene che anche i cieli notturni, ormai, mi sembravano un tetto sotto il quale ripararmi. Quando tornavo a casa visitavo spesso la famiglia e, per qualche mese, condivisi la casa con altri due amici che, come me, spostavano mandrie: Raynold Droper e Thomas Temple, due ragazzoni chiassosi ed espansivi che più tardi sarebbero stati arruolati nell'undicesimo reggimento dell'esercito indipendentista.

La guerra non era più casa mia. Se fossi stata su una nave, forse... ma ero nelle truppe di terra, e il terreno umido di fango e sangue delle trincee non mi sembrava mai sicuro. Continuavo a pensare a casa mia, però. Forse è questo che mi ha sempre impedito di diventare un eroe decorato: non sono mai partita come volontaria per proteggere l'intero rim esterno, ma soltanto casa mia. Non pensavo ai massimi sistemi né a grandi e complicati ideali, mentre combattevo, ma soltanto alle facce della manciata di persone che volevo salvare.

La guerra cambiò tutto. Vedendo Shadetrack distrutta, mi sentii un po' morire. Seppellendo mio fratello pensai che non sarei potuta appartenere più a nessun posto. Quando John Cassidy mi poggiò la mano sulla spalla e mi disse: "non ha senso che resti qui, vieni con noi", guardai la Lucky Bastard da lontano, sorrisi sentendomi ancora l'amaro in bocca e gli dissi: "non ci ha portato molto fortuna".

Forse me ne portò nei due anni seguenti, un po' di quella fortuna di cui era stata sempre avara: non ho ancora ritrovato Maryanne e Sean, ma tornai ad abituarmi ad avere persone attorno, seppure quelle persone non fossero che una manciata di ex soldati feriti quanto me riciclatisi come criminali e contrabbandieri. Froome, Nadia, Luther, Rob: c'erano tutti quando passai la mia ultima serata sulla Bastarda Fortunata, a dirmi di restare, a darmi consigli sulla vita, e ubriacarsi e a mangiare cibo vero, comprato esclusivamente per l'occasione.
C'erano tutti, tranne il capitano Cassidy. John. E la cosa non mi sorprese affatto.

Ora percorro i corridoi di questa nave alla quale non mi sono ancora abituata. L'ho chiamata Almost Home, perché voglio sentirmici a mio agio, ma non troppo: non voglio dimenticare che una casa vera ce l'avevo, una volta. E non voglio dimenticare chi me l'ha portata via.