mercoledì 14 dicembre 2011

my own kind of breath



Un respiro profondo.

Mi sono sentita mancare il fiato, per un istante. Era come se avesse colpito il giubbotto con tanta forza da farmi rientrare il kevlar nella cassa toracica. Sono caduta a terra, con quel passamontagna che mi impediva di incamerare l'aria fresca pompata dai sistemi vita della Almost Home. E mi è tornato in mente cosa diceva mia madre quando ero nervosa, o quando mi facevo male.

Un respiro profondo.

Era una donna dura, mia madre. Crebbe mio e mio fratello da sola. Non so perché non si sia mai sposata: da giovane, ancora lo ricordo, era una ragazza splendida. Quando io e Cain eravamo piccoli ebbe anche attorno un paio di pretendenti. Il primo era un ragazzotto di Indira, abbronzato e con un sorriso bianco, la barba che gli cresceva a macchie. Quando avevo sei anni, però, mi ricordo un altro uomo: Don. Don era un uomo vero, me lo ricordo: un signore con una barba folta e brizzolata di una quarantina d'anni, con una schiena ancora buona e un lavoro dignitoso. Gestiva una piccola fattoria col sudore della fronte. Sembravano stare bene, insieme. Quando lui era in giro, lei sorrideva sempre. Aveva poco più di trent'anni allora, e il suo sorriso era raro, ma anche splendido. Don la rendeva rilassata, la faceva abbandonare ogni tanto a se stessa, le faceva godere un minimo una vita che per lei era sempre stata fatta di lunghe ore di lavoro. Se la cavava anche con noi, Don: mi ricordo i regali che mi faceva per Natale e per il compleanno, il modo semplice che usava per spiegare le cose complicate, le sue mani robuste che mi aiutavano a salire sul mio primo cavallo. Non era zio Sam, non era neanche mio padre. Ma per un po' fu qualcosa che vi si avvicinava molto.

Un respiro profondo.

Non si sposarono mai, e dopo un po' Don non si fece più vedere. Non ho mai saputo perché mia madre rifiutò la sua offerta, ma ho sempre avuto un'idea. Era un uomo all'antica, di quelli che volevano provvedere alla propria moglie, alla propria famiglia, senza fare alzare loro un dito. Mia madre non era così, non era per quella vita: era una donna indipendente, che lavorava sodo e che non ammetteva che nessuno dicesse una singola parola di critica su come educava i suoi figli. O forse, dopo tanto tempo passata da sola, ci aveva semplicemente fatto l'abitudine. Quando ero più giovane volevo essere come lei. Volevo stare da sola, non volevo legami, non volevo nessuno che mi dicesse, o che solo mi suggerisse cosa fare, o che volesse avere una parola nel modo in cui conducevo la mia vita.
Poi la guerra ha cambiato tutto. Come se in un solo colpo avesse spazzato via la speranza di avere una vita normale, una relazione duratura, un vero tetto sulla testa, un lavoro onesto e qualcuno da cui tornare a casa la sera. John non l'ha mai capito. Non ha mai capito che la mia rabbia non veniva dall'avere gli occhi puntati al passato, ma dal non riuscire più a vedere avanti a me. Niente che mi piacesse, almeno. Niente che non sembrasse solo una bugia, un'imitazione squallida della vita che avrei potuto avere se avessi messo qualche soldo da parte, se avessi trovato la persona giusta, se i miei cari non fossero mai morti.

Un respiro profondo. Ogni volta che mi sbucciavo un ginocchio, che mi facevo male. Lei non mi aiutava ad alzarmi. Mi guardava soltanto con quegli occhi intensi che aveva, dicendomi: "un respiro profondo". Era il suo modo per evitare che piangessi, che dessi troppa importanza alla caduta, che mi dimenticassi che potevo rimettermi in piedi con le mie sole forze.

Forse l'ho fatto. Ho trovato la Almost Home, che è quasi una casa, il mio equipaggio, che è quasi una famiglia. Un lavoro quasi onesto, un uomo quasi giusto.

Un respiro profondo.

Vorrei non sapere come questa vita andrà a finire. Vorrei non sapere che c'è un proiettile col mio nome sopra, da qualche parte del 'Verse, che prima o poi mi strapperà via anche questo quasi-futuro che mi sono costruita.

Nessun commento:

Posta un commento