lunedì 28 maggio 2012

my own kind of public relationship


Con Roona Mei al capezzale di Thomson e Sterling uguale, mi sono ritrovata a dovermi occupare di mille cose che al ranch non ho mai fatto. La mattinata intera al banco della frutta e verdura alla piazza del mercato, per dirne una: mai vista una trafila di individui con richieste più ridicole. E i carciofi né piccoli né con le spine, e le pesche noce, e i cavoli verza che non sono uguali ai cavoli cappuccio, e come mi consigli di cucinare queste rape, e quali sono le carote buone per lo stufato, e queste mele che mi hai dato sono tutte ammaccate, e dove stanno i cavalli che ci stanno di solito? Appena è passato Carradine gli ho mollato tutto, e poco me ne fregava che fosse solo passato per portare i cavalli che mi ero scordata. 

C'era quel tipo, quel Mickey, l'oste nuovo dei Marshall. E' uno strano, che non porta armi con sé perché "non gli piacciono" ma che potrebbe voler imparare ad usarle per proteggere "qualcuno", quella di cui è innamorato, dice lui. Deve essere stagione, sono tutti con gli ormoni strani.

Non so se Sterling e Ritter si sono resi conto di ciò che ho fatto. Non so se si sono resi conto che, per quanto volessi sbattere le loro teste contro il muro fino a sfondarlo, non avrei mai ucciso Ritter. Non so se si sono resi conto che quello che li ho obbligati a fare non l'ho imposto solo per tutelare noi, ma anche per proteggere Ritter. Da me. Gli ho dato un biglietto per entrare nella mia famiglia - perché Sterling, nonostante mi abbia deluso, resta famiglia -, una garanzia che non gli farò mai del male, perché non faccio male ai miei. L'ho costretto ad essere dei miei perché in questo modo non potrà sottrarsi. Perché il matrimonio tiene la gente insieme anche quando non si sopporta più, perché in questo modo - quando avrò Sterling col cuore spezzato a bersi l'anima in sala macchine - non dovrò preoccuparmi di prendere il revolver e andare a cercare il suo ex-fidanzato che, senza più il collegamento che li tiene uniti, diventerebbe un rischio che non possiamo permetterci di correre.

Sono stanca. Sono esausta, a ben vedere. La gamba non mi ha mai fatto così male, a volte il dolore mi fa venire le lacrime agli occhi. Di notte, soprattutto. Mi stordisco di antidolorifici finché non sento più neanche il peso della mia vita. John Cassidy diceva che c'è solo un certo numero di cose che una persona può sopportare, e che dopo averle sopportate tutto basta, fine, non può reggere nient'altro. Giorno dopo giorno mi sento sempre più vicina a quel limite. 

Però prendo respiri profondi fingendo che vada tutto bene, che non ci pensi mai a tutto questo. Che non pensi mai a lui, che non sia andata quel pomeriggio a Safeport a cercare il suo tatuatore a Sunset Tower per farmi dire che non torna a casa sua da una vita, che non sia andata a cercare conforto sul corpo di una puttana che puzzava di sudore.

Uno in completo di Koroleva mi ha chiesto, oggi al mercato, se faccio ciò che è giusto. Io gli ho ripetuto quello che diceva mia madre, e che faccio ciò che devo. 

Spero solo di avere abbastanza forze da continuare a farlo.


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