sabato 12 maggio 2012

my own kind of wild




Sono cresciuta in mezzo ai cavalli.
Erano il mezzo più economico di trasporto, il modo più veloce per correre su gambe non proprie, l'intrattenimento durante i rodei. Sam mi insegnò a montarli e a cavalcarli, a costo di cento impennate e altrettante cadute. Mi insegnò a restare in sella nelle situazioni peggiori, mi insegnò che  nelle praterie il mio cavallo era tutto ciò che avevo, che calato il sole e deciso il posto dove dormire, il cavallo doveva essere il primo a mangiare, a bere, a riposarsi. Devi trattarli bene i cavalli, o ti disarcioneranno sempre.

I cavalli erano anche i selvaggi. Quando ero bambina, io e gli altri ragazzi di Madrida andavamo ogni domenica alla Valle de la Viuda. Ci sedevamo sulle pietre di fronte al ruscello e guardavamo dall'altra parte i ragazzi più grandi sfidarsi a catturare i selvaggi, per portarli a casa e piegarli ad essere domati. Ne ho visti a centinaia di cavalli domati, in vita mia. Il primo di mio fratello fu un palomino femmina, una puledra forte come un gigante che lo disarcionò quattro volte prima di piegarsi. Il mio primo fu a diciassette anni. Il suo nome era Yiska, era un baio catturato dai Barclay sulla strada da Mexican. Un solitario.

Lui lo incontrai appena compiuti i vent'anni. La sua mandria si era spostata dalle pianure a sud, scacciata dai cantieri per il prolungamento della ferrovia. Era un moro con lo zoccolo duro più della roccia, testardo e dominante, inafferrabile come il vento. Lo chiamavano tutti Comanche, il cavallo pazzo. Ci misi un mese intero a farlo abituare alla mia vicinanza senza che provasse a calciarmi. Ogni giorno scendevo alla valle e mi chinavo nell'erba alta, lasciando che mi vedesse più piccola di quanto fossi, che iniziasse a non percepirmi più come un pericolo. Agitavo il lazo in aria senza lanciarlo, così che facesse l'abitudine al movimento delle mie mani. Il giorno che tornai con Cain, ci misi ore ad avvicinarmi abbastanza da lanciare il lazo. Sapevo che avevo una sola possibilità e ce la feci. Se Cain non avesse azzeccato il suo colpo, Comanche mi avrebbe probabilmente travolto e uccisa.

Lo portammo al recinto di Howles, insieme agli altri. Ricordo il modo in cui si agitava nel box prima di uscire, i nitriti di quando gli assicurammo la corda attorno al collo. Cain, lo ricordo ancora, mi disse di lasciar stare, di far provare a qualcuno con più esperienza. Chris Barclay si tolse il cappello, me lo porse, e disse con quel suo sorriso splendido e quella sua faccia da schiaffi che si sarebbe sacrificato per me. Io lo spintonai dal recinto e gli lanciai addosso il suo cappello. Poi mi arrampicai e mi misi sul dorso del moro. Ricordo la tensione dei suoi muscoli tra le mie gambe, quell'attimo di attesa e sospensione in cui il cuore ti si ferma un attimo, e sai che è troppo tardi per scendere. Ricordo l'attimo di tranquillità nel suo respiro, come se avesse capito esattamente che avrebbe avuto la sua chance di vendicarsi da lì a poco tempo.

Ero impreparata. Ricordo come nitrì imbizzarrito, come si piegò su se stesso saltando verso l'alto. Ricordo come girò su se stesso e poi cambiò direzione all'improvviso, per farmi adattare e poi ingannarmi. Ricordo il salto con cui mi disarcionò. La fitta alla testa e i suoi zoccoli sul petto, l'impressione di respirare polvere un secondo, di non respirare per niente l'attimo dopo. Ricordo la rabbia di Comanche, il modo in cui sapeva che ero il suo nemico. Avrei dovuto aspettare anni, prima di capirla interamente.

Cain fu il primo ad arrivare, mentre il maggiore dei Barclay agitava le mani per scacciare il cavallo. Penso di essere svenuta e di essermi risvegliata più volte nel giro di pochi minuti. Mi ricucirono la ferita alla testa, mi fasciarono il busto dicendo che ci sarebbe voluto un po'. Passai una settimana senza riuscire praticamente a montare a cavallo, un mese ad osservare Comanche dal recinto, a sentire il costante battito dei suoi zoccoli contro il legno, la costanza con cui provava a demolire ogni barriera per essere lasciato libero. Passavo le ore nella stalla di Howles a fissarlo, a contare i giorni.

Il giorno che uscii per andare a provarci di nuovo, litigai con Cain. Si mise di fronte alla porta rifiutandosi di farmi passare, urlandomi in faccia che a questo giro quel selvaggio mi avrebbe ucciso, che non mi bastava una cicatrice sulla tempia per sempre, le costole ancora non del tutto rinsaldate? Arrenditi su questo cavallo, cub. Questo cavallo non è per essere domato.

Mia madre ci sorprese mentre avevo le mani sulla sua faccia, tentando di spingerlo abbastanza di lato da aprire la porta il minimo indispensabile per uscire. Ci guardò col suo sguardo severo, guardò Cain e disse: "tua sorella è un'adulta". Disse: "tua sorella farà le sue scelte, e tu non hai alcun diritto di farle cambiare idea". Lui imprecò così forte che lei ci cacciò di casa entrambi, io ebbi ciò che volevo: la possibilità di domare finalmente Comanche.

Se ne era parlato così tanto, che mezza Madrida mi stava aspettando fuori dal recinto grande, quando arrivai. Tutti i miei amici, tutti gli amici di mio fratello e mia madre, tutti gli amici di mio zio Sam. C'erano Raul, Dale, Rick, Diego, le sorelle Gonzales, anche Chris, Cain che mi aveva seguito. Ci vollero tre uomini solo per portarlo nel box, e quando salii sulla sella, sentii che mi avrebbe disarcionato di nuovo, se non fossi stata diversa. Lo accarezzai sul collo, mi abbassai col busto, chiamai Chris. Gli dissi di legarmi le gambe alla sella e al cavallo. Non ho mai visto due occhi farsi così grandi.

I ricordi che ho dei momenti successivi sono confusi. Ricordo di aver pensato che, se domato, Comanche sarebbe potuto essere uno di quei cavalli agili e veloci. Ci sono cavalli agili, in grado di fare decine di cambiamenti di direzione in pochi istanti, e ci sono i cavalli veloci, che corrono come il vento in linea retta. Ci sono pochi cavalli agili e veloci. Ricordo il colpo del dorso verso l'alto, le mie ginocchia che premevano contro i suoi fianchi, le mani strette alle briglie il più vicino possibile al morso, per costringerlo a risentire di ogni sfrontatezza. Il rumore degli zoccoli non ferrati, il nitrito chiaro e selvaggio della sua rabbia. Ricordo che si buttò di lato un paio di volte, crollandomi sulle gambe, e che ogni volta dovette tirarsi in piedi mentre ero ancora in sella. Ricordo di aver pensato che fosse la battaglia della mia vita, il nemico della mia vita, in un tempo in cui non sapevo ancora cosa fosse una battaglia o un nemico.

Andò avanti così per un tempo interminabile. Così tanto che mi abituai al suo ritmo, che la schiena e le gambe smisero di farmi male, che smisi di chiedermi se avrei mai potuto rilassare i muscoli di nuovo. Ma sapevo che si sarebbe arreso, presto o tardi. Sapevo che tutti i cavalli hanno un limite oltre il quale smettono di combattere, oltre il quale sono domati. Sapevo che mancava poco. Sapevo che non potevo smettere di farmi sbalzare ovunque perché era esausto, e mancava così dannatamente poco.

Poi sentii il nitrito finale, vidi come girò innaturalmente la testa per osservarmi in uno slancio disperato, il bianco dei sui occhi e i suoi denti scoperti. Si impennò senza cercare poi il terreno con gli zoccoli. Cadde all'indietro, io caddi con lui e sentii il rumore delle costole ancora fragili fratturarsi di nuovo, il respiro mancarmi. Accorsero Cain e Chris, mi slegarono le gambe e mi sfilarono via dai suoi fianchi mentre io lo fissavo col respiro rotto e il dolore annidato nell'umidità degli occhi.

Comanche non si era arreso. Comanche aveva raggiunto il suo limite e l'aveva saltato, preferendo morire stremato che vivere il resto della sua vita con una sella sul dorso.

Comanche aveva preferito morire a farsi domare.







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